Libri di Giovanni Rissone
Obiettivo far salute
Edito da Rosemberg & Sellier
(gennaio 1991)
A cura di Giovanni Rissone.
"OBIETTIVO FAR SALUTE" apre una strada di informazione costruttiva per chi opera, pur con percorsi diversi, nell'ambito della Salute a favore
dell'Essere Umano inteso non separatamente per organi e funzioni, ma nella sua globalità ed inscindibile unitarietà.
Un approccio alla Salute per la realizzazione di un nuovo Paradigma in sintonia con "La Carta Health Promotion" dell'O.M.S.: OTTAWA 21
Novembre 1986.
È composto nelle seguenti parti:
- FAR SALUTE: Le Comunità Cristiane: Protestanti Valdesi e Cattoliche (PASTORE TACCIA, DON CIOTTI, MONS. NERVO)
- FAR SALUTE: L'uomo, l'animale, l'ambiente.
- PERCORSI FAR SALUTE: La Risorsa Gente
- FAR SALUTE: La Formazione degli Operatori
- FAR SALUTE: L'Organizzazione dei Servizi
- FAR SALUTE: Il Medico di Medicina Generale
- HEALTH PROMOTION: Sen. FRANCA ONGARO BASAGLIA
- COOPERAZIONE-TRASFERIMENTO-RICERCA-L'ESPERIENZA DEL PROGETTO DI "NUOVA PSICHIATRIA": BENEDETTO SARACENO.
Pagine 11-15
OBIETTIVO FAR SALUTE
Rissone Dott. Giovanni, Responsabile segreteria generale permanente far salute Health Promotion
"Obiettivo far Salute" apre non a caso la collana omonima editoriale a cura della Casa editrice Rosenberg
e Sellier. La situazione attuale in cui versa in gran misura l'assistenza socio sanitaria (situazione per
cui credo si abbia esaurito il vocabolario esistente di aggettivi con significato negativo) non è
dovuta al caso, ma è la diretta conseguenza di scelte politiche e tecniche espresse nel corso degli
anni in un tipo di gestione in cui gli unici a non avere mai danni sono i fruitori del business of desease,
compresi i professionisti della piovra mafiosa.
Ci sono stati in questi anni obiettivi diversi e a volte contrapposti.
La confusione che spesso il cittadino si trova dinanzi è sovente la risultante dell'immobilismo legato
a conflittualità che gli passano sulla testa e non conosce e capisce, ma subisce. Paradossalmente l'uomo
o la donna di oggi pur avendo molte più notizie per la propria salute, sono però, nei fatti,
sempre più deprivati della capacità di promuovere e tutelare la propria salute e sono sempre
più palline da ping pong tra varie agenzie, risposte.
Non riteniamo utile aggiungere benzina al fuoco delle critiche: crediamo necessario non partecipare nè
alla pura e semplice gestione del malcontento (con meccanismi fini a se stessi e non tanto a risolvere i
problemi), nè al gioco del palleggio delle responsabilità, scegliamo di gestire la salute,
non fare i "tranquillanti sociali".
Scegliamo di cambiare e far chiarezza a partire da quello che vogliamo e facciamo o cerchiamo di fare.
Esplicitiamo quindi il nostro obiettivo: Fare Salute.
Operare cioè per costruire, con trasparenza e verificabilità nel rispetto della dignità
e libertà dell'uomo (così spesso e tragicamente calpestata nella sanità), percorsi che
portino a stazioni, terminali di salute o della miglior dignità e qualità di vita recuperando
come senso degli interventi, il senso della vita di chi ci chiede l'intervento, partendo dai suoi bisogni reali
soggettivi e oggettivi, in una, necessaria, reciproca responsabilità.
Sapendo che per fare questo, per attuare servizi centrati sulla persona, bisogna lottare, con continuità,
affrontando anche la questione dei bisogni indotti.
Sapendo però che non si parte da zero in questa direzione di cambiamento.
Spesso ci si trova nella vita presi dalle proprie cose, dai propri percorsi diversi nelle possibilità,
di procedere o resistere, ma in queste diversità di percorso spesso troviamo problemi e ostacoli comuni,
esperienze positive importanti.
Con "Obiettivo Far Salute" abbiamo voluto cogliere e valorizzare queste esperienze e percorsi in un'ottica a
360 gradi, consapevoli della maggior ricchezza esistente e dei limiti del nostro contributo che vuole iniziare
a stimolare a pensare che la salute della persona non è oggi solo più problema del medico, ma
prodotto, risultato dell'agire di molti e che quindi la strada non può più avanzare senza cercare
di essere in un sistema di integrazione in reciproche responsabilità tra il cittadino nel ruolo di
utente e tra il cittadino nel ruolo di operatore, consapevoli della interscambiabilità dei ruoli
secondo i problemi: che cioè la questione riguarda tutti.
La salute del singolo e la risultante della integrazione e responsabilità di molti, singolo compreso,
direttamente o indirettamente, più condizionanti o meno le cause di rischio o danno per la salute,
la qualità di vita o la possibilità di curare o riabilitare efficacemente.
È sufficiente pensare che per curare un'infezione batterica la diagnosi e la prescrizione del medico
avrà efficacia solo se si è verificata prima e si verifica dopo una ricca serie di fatti ed
avvenimenti: la ricerca scientifica, l'organizzazione industriale, quella farmaceutica, quella diagnostica di
laboratorio, i soldi o la possibilità di acquistare il farmaco, la compliance, vale a dire la
corrispondenza tra comportamento del malato e la prescrizione del medico.
Questo è l'esempio più semplice di una situazione, tra l'altro solo terapeutica, e tralascio
l'elenco di tutte le variabili che possono subentrare in questo percorso producendo inefficacia o disservizio,
perchè occorrerebbe un libro solo per questo.
Se vogliamo far salute e cioè curare con efficacia, nel rispetto del senso della vita del curando,
prevenire, laddove possibile, riabilitare, dobbiamo essere consapevoli, a meno di essere in un delirio di
onnipotenza, che questo può avvenire solo con il concorso e coordinamento di molti, di chi, secondo
il problema deve intervenire, prima, durante e dopo.
Compreso il mondo, paludoso è dir poco, della burocrazia amministrativa.
Dobbiamo rivedere la Medicina, andare oltre un mondo semplificato o riduttivo, impostato sulla malattia,
costruire, organizzare, gestire servizi per il malato.
La persona deve essere considerata non più separatamente, per gani o funzioni, ma nella sua unità
fisica psichica, socio-economica: le conoscenze che ci sono oggi lo consentono.
Bisogna che cessi la negazione del malato, la sua esclusione a favore della cultura della malattia, che troppo
spesso è l'oggetto di interesse ed intervento, ed in cui la persona non è più persona,
ma spersonalizzata a "caso" e spesso a cosa, anche per i perversi iter burocratici esistenti che disarmano
spesso anche i medici e gli operatori più volenterosi.
Optare per la scelta scientifica di non negare il malato, come sosteniamo, vuol dire rivedere tutto: ruoli,
formazione, organizzazioni, spostare interessi economici, ricercare diversamente, ma vuol dire cercare di
tutelare e promuovere i diritti alla salute, oggi ancora troppo schiacciati.
C'è bisogno di industrie per strumenti, prodotti, per prevenire, riabilitare, non solo per curare,
e curare, o riparare, a volte, danni di altre cure in una folle spirale di accanimenti diagnostici e terapeutici
in cui lo spazio della persona interessata è almeno limitato.
Sappiamo di dover agire in una situazione distorta anche dai bisogni indotti: per educare alla salute,
informando e comportandoci correttamente con chi è stato diseducato da altri, è necessario se
non un protocollo (difficile) una certa omogeneità di linguaggio e di atteggiamento tra gli operatori
socio sanitari.
È necessario cioè assumere come metodo l'integrazione, il collegamento tra chi opera
contemporaneamente verso problemi di una stessa persona: bisogna superare la separazione, i sistemi chiusi
esistenti tra chi forma e chi opera, è necessaria una verifica completa.
Se non lo si fa come si può capire cosa è utile fare?
Bisogna rivedere, in primis, il ruolo del medico di medicina generale, per giungere ad un medico per la persona.
Chi tira le fila per un cittadino che ha più problemi e risposte contemporaneamente?
Le pluripatologie sono una costante, negli anziani per esempio.
È pur certo che un cambiamento di organizzazione, di metodo di comportamento, di spostamento di interessi
economici, non avviene in un giorno, anche perchè si accompagna ad un cambiamento di cultura: ci sono
troppi vuoti da riempire molte ridefinizioni di ruoli e compiti da fare.
Le risposte dirette per le persone sono ancora concentrate nella struttura Ospedaliera e questa è sempre
privilegiata nei finanziamenti e nelle risorse di personale, mentre il territorio (assistenza ambulatoriale e
domiciliare) fa sempre da cenerentola: e un po' una situazione immobile o, se si vuole, è come un cane
che si morde la coda tra problemi di potere e importanza.
Sono, ad esempio, stati definiti gli standards per il personale ospedaliero: mancano quelli per il territorio,
ed è necessaria l'organizzazione socio-sanitaria territoriale.
Non è più questione oggi di polemiche tra ospedalocentrismo o territoriocentrismo, ma di dare
efficacemente le risposte che servono alla gente dove si devono dare in un serio e verificato rapporto di costi
e benefici.
Bisogna cioè capire cosa uno deve farsi fare in Ospedale e quello che può ricevere a casa o in
ambulatorio.
Non solo, ma il territorio e l'ospedale sono due diversi punti di osservazione, per diversi motivi: chi lavora
in ospedale è portato a considerare di più la malattia, chi lavora nel territorio, sia per la
situazione aperta, piena di variabili, che per continuità nel tempo è portato, quasi
necessariamente, a occuparsi della persona, con cui, a differenza di chi lavora in Ospedale, ha una storia,
una relazione, non casuale ma costante: è il primo riferimento per le sue paure e problemi di salute.
È necessaria l'esistenza dei due momenti ed un confronto tra chi opera ai due livelli, in collegamento:
per capire e definire le reciproche responsabilità partendo dai problemi concreti, per definire ruoli
e ambiti, riqualificare e correggere gli interventi dei due livelli anche in uno scambio di saperi.
Sembrano cose banali da fare e probabilmente lo sono, ma forse anche proprio per questo, laddove ci si
sta muovendo in questa direzione, il tutto è dovuto troppo spesso alle scelte di singoli, tecnici,
politici, cittadini, che ci credono e si impegnano piuttosto che al dettato di leggi che in Italia vengono
emanate e poi non sono quasi mai gestite e che sembrano sempre più uno strumento di gestione di
malcontento che dei problemi che le hanno determinate: non a caso per placare gli animi, le proteste, si
rinnovano le leggi a scadenze direi fisiologiche; al cadere della speranza ed al nuovo esacerbarsi di proteste
si fa una nuova legge e i problemi restano da gestire e spesso diventano ingestibili.
C'è troppo silenzio da parte dei responsabili delle U.S.S.L., troppo spazio per le strumentalizzazioni,
poco per un confronto serio, per valutare, definire i problemi e potere gestire e cambiare.
Nella U.S.S.L. in cui lavoro, la Val Pellice, in provincia di Torino siamo giunti, in una delle consuete riunioni
che indico tra il Direttore Sanitario e i Medici dell'Ospedale Valdese di Torre Pellice ed i Medici di Medicina
Generale, a definire e quindi a disporre che tutti i giorni feriali dalle 12.00 alle 13.00 ci sia l'accueil dei
Medici di Medicina generale per discutere i problemi dei pazienti che hanno ricoverato, anche per il da farsi
alla dimissione (ogni dimissione è accompagnata da una lettera che supera il burocratismo formale con
un chiaro strumento informativo sulla situazione del paziente).
È uno strumento anche di informazione reciproca e chiarimento e di eliminazione di alibi per tutti:
a piccoli passi si può fare molto e non costa.
Si parla oggi di necessità di manager: può darsi senz'altro nella gestione amministrativa,
ma quello che non capisco è: se ci sono, in questi dodici anni dove si sono nascosti?
Per quanto concerne il riordino sanitario, ho cercato di attuarlo in questi anni, ho creduto negli operatori
nella loro soggettività e libertà in un preciso rapporto dialettico e di responsabilità
anche vivace, ma vivo.
I Medici di Medicina Generale oggi continuano a fare gratis le prestazioni extra a domicilio perchè
fanno parte della loro professionalità: non pensano di essere fessi, ma dei medici.
Le infermiere operano tutti i giorni, festivi compresi, in integrazione con i Medici di Medicina Generale.
Ogni mese c'è in ogni distretto, ormai istituzionalizzata, una riunione, che presiedo, in cui sono
presenti i Medici di Medicina Generale, le infermiere e le operatrici socio assistenziali per affrontare
i casi più difficili od i problemi nell'assistenza integrata.
Nonostante un mansionario delle infermiere che è degli anni 70, prima della legge di riforma ed
è spesso una palla al piede.
Non sono tutte rose, ma il percorso e avviato.
C'è integrazione con le operatrici del Servizio Socio Assistenziale, ma per loro la musica è
diversa, o meglio inversa all'inizio: la loro formazione è consona alla cultura necessaria per la
rilevanza sociale dei problemi della salute, però mancano di risorse finanziarie, strumenti.
Da queste esperienze è nata una nuova esigenza di confronto con le altre e con i problemi, per poter
migliorare.
Tra le possibilità di arrendersi, resistere, cercare di proseguire, abbiamo fatto la scelta,
senza ingenuità, coscienti dei problemi esistenti per il cambiamento, di continuare verso l'obiettivo
di fare salute, di cercare "di essere vivi", di cercare di liberare l'intelligenza, confortati dalle posizioni
dell'Organizzazione Mondiale della Sanità, di importanti centri scientifici, da esperienze nazionali
ed internazionali.
Nell'86 ho organizzato a Torre Pellice un Convegno Nazionale: "Obiettivo Far Salute: Servizi e Comunità a
confronto".
A termine del Congresso, cui partecipò il Ministro della Sanità, è stata istituita
dalla mia U.S.S.L. la Segreteria Generale Permanente Far Salute che si muove con gli auspici
dell'Organizzazione Mondiale della Sanità Regione Europea e si ispira alla Carta Health Promotion
dell'Organizzazione Mondiale della Sanità che ringrazio per l'autorizzazione alla stampa.
Pagine 295-299
HEALTH PROMOTION
Franca Ongaro Basaglia, senatrice, membro della Commissione Health Promotion dell'OMS
L'ottica con cui l'OMS si accinge ad affrontare il problema della salute per tutti attraverso la ricerca di
un nuovo concetto di salute pubblica che si rifaccia ad un modello ecologico/ambientale e sociale, sembra
coinvolgere fattori abitualmente ritenuti estranei alla sfera della "sanità": pace, rinuncia al nucleare,
modifica del modello di sviluppo dei paesi industrializzati, ricomposizione dell'equilibrio individuo-società-
ambiente distrutto da questo stesso modello, rispetto della soggettività sia del sano sia del malato,
maggiore uguaglianza nella distribuzione delle risorse economiche e nell'acquisizione dei diritti, minore
delega ai tecnici e maggiore autogestione dei problemi da parte della popolazione. Che tutto questo sia
la base per l'avvio di una nuova definizione di salute da parte dell'OMS, definizione che svincola salute
e malattia dalla medicina scoprendo e denunciando responsabilità ad essa esterne, mi pare di
grandissima importanza. Ho però cercato di sottolineare, nella mia relazione, il timore che un
tale messaggio, così ricco di significati e di implicazioni, rischi di restare un'enunciazione di
principio trasferibile, in quanto tale, alla responsabilità dei diversi stati, mentre questa stessa
ottica multidimensionale potrebbe produrre mutamenti concreti di grande portata se venisse
contemporaneamente trasferita su ciò che, a mio giudizio, si da - nell'ambito OMS - troppo
velocemente per superato. Intendo il modello medico-clinico che continua ad operare come l'unico soggetto
capace di proporre un'immagine universale di salute e di malattia, che è invece semplicemente
speculare alla sua capacità di produrle e di agire su di esse: cioè speculare ai saperi
disciplinari e alle istituzioni della medicina. L'insieme di interazioni ambientali, ecologiche, sociali
ed esistenziali che l'OMS indica come le prime responsabili del prodursi di salute e malattia, sono di fatto
le variabili sistematicamente negate dal modello medico-clinico.
La cultura medica (e con questo intendo il pensiero, il mondo di conoscenze ma anche la natura della
relazione medico-paziente, medico-malattia, medico-salute) è ugualmente diffusa ed operante non solo
nei valori dei tecnici ma anche in quelli dei loro utenti reali e potenziali. Il che significa che, nel
suo giocare con la vita e con la morte, il sapere medico ha sempre vinto su ogni forma di conoscenza critica
che non provenisse dal suo stesso seno, impedendo l'esprimersi di conoscenze estranee allo schema di
riferimento delle proprie discipline. Inoltre, esso risulta uno degli elementi determinanti nella produzione
di quote suppletive di malattia quale risultato dell'uso del modello medico a copertura di problemi sociali.
Per promuovere una nuova cultura della salute, non credo si possa dunque trascurare di entrare
contemporaneamente nel merito di come la cultura medica continua a definire e a trattare la malattia,
agendo sugli elementi che hanno costituito lo strutturarsi del modello medico-clinico come forma di potere
sulla malattia e sul malato e come parte integrante ed essenziale dei meccanismi di controllo sociale.
"Medicine alternative", forme di self-help o self-care nate negli anni '60 nei paesi europei sono procedute
parallelamente alla cultura medica tradizionale, producendo nuovi specialismi separati che convivono con
la vecchia cultura anche se ne sono antagonisti. I movimenti che in Italia, avevano incominciato, negli
anni '70, a produrre nuovi saperi collettivi sul terreno della salute (quello dei lavoratori nelle
fabbriche e quello delle donne) non hanno invece superato la fase di espansione del movimento e non
hanno resistito al riflusso prevalentemente perchè i pochi tecnici che operavano al loro interno
da un ruolo di scarso potere, non sono riusciti a far breccia nell'assetto istituzionale della medicina,
con il risultato che le critiche e le esperienze di questi movimenti si riducono spesso a petizioni di
principio che non trovano realizzazione pratica (vedi il controllo ambientale come prevenzione delle
malattie da lavoro che ancora si tende a monetizzare, o le rivendicazioni da parte delle donne del fatto
che aborto e parto non sono malattie ma esperienze di vita, da vivere come tali). Sono convinta, invece,
che se non si entra in conflitto con questa cultura così come è stato fatto in Italia
nell'ambito della psichiatria, e non si fa breccia al suo interno essa risulterà sempre vincente
nella definizione di salute e di malattia.
II risveglio e il rispetto della soggettività e delle esigenze globali dell'individuo è uno
dei modi di conservare la capacità personale di difendere o di conquistare la propria salute e
la capacità critica di valutare la risposta teorica in rapporto ai propri bisogni.
Ma la soggettività e i bisogni necessitano di spazi in cui esprimersi e i servizi (tradizionalmente
rispettosi solo della soggettività e dei bisogni degli operatori) devono aprire questi spazi, cioè
tollerare e rendere produttivo il conflitto che comporta l'esistenza di una pluralità di soggetti e
di diritti, spesso in antagonismo fra loro. L'ospedale e i servizi sono tradizionalmente fondati sulla
subordinazione delle necessità e delle esigenze dei pazienti alle regole che rispettano le
necessità e le esigenze dell'istituzione. Il conflitto che può produrre un paziente-soggetto
e automaticamente annullato attraverso la sua riduzione a corpo. Quando si parla del modello medico
come parte integrante del sistema di controllo sociale o come strumento di consenso verso i valori dominanti,
si intende esattamente questo processo di spersonalizzazione del malato in vista della sua totale identificazione
nella malattia. Mediare gli interessi e quindi i bisogni della popolazione attraverso i servizi significa,
allora, prima di tutto lasciarli esprimere, mentre le diverse discipline hanno l'effetto (o il compito?)
di frantumare la globalità dei bisogni attraverso la unidirezionalità di un intervento
tecnico che, polarizzandosi su un solo elemento, trascura tutte le altre variabili, reprimendo anche le
potenzialità reattive dell'individuo. Solo riconoscendo, quale primo soggetto di questo conflitto,
il cittadino, il suo diritto alla salute e la complessività dei suoi bisogni si può arrivare
a rovesciare l'interesse sociale e il modello professionale-istituzionale orientandoli dalle esigenze
del servizio alle esigenze di chi lo usa, incominciando, per la prima volta, a difendere gli interessi
della popolazione che, per la prima volta, si cerca di conoscere lasciandoli esprimere.
Non è infatti privo di significato il fatto che, al di là dello stato di disagio ovunque
denunciato nel settore sanitario e assistenziale, la crisi del modello medico-clinico sia più
sentita ed evidente nei paesi in cui è stato istituito un SSN, cioè dove il diritto alla
tutela della salute per tutti è stato sancito per legge e la conseguente, nuova contrattualità
del cittadino agisce come fonte di una conflittualità che comporta esigenze qualitativamente nuove.
I nuovi diritti si trovano infatti ad interferire nello stesso modello scientifico che fondava le sue
certezze sulla semplice materialità del corpo. Dal momento in cui esiste un "diritto" individuale
e collettivo alla tutela della salute, esiste un nuovo dovere sociale che amplia quello puramente
professionale, costretto a trovarsi a contatto con una salute condizionata e minata da problemi di vita di
cui la cultura medica non ha mai tenuto conto, se non nella minoranza dei rapporti con soggetti ad elevato
peso contrattuale.
II fatto che l'accesso egualitario alle prestazioni e ai servizi non abbia mutato la disuguaglianza della
salute della popolazione (vedi il caso inglese attraverso il rapporto Black e lo stesso caso italiano),
conferma concretamente quanto il problema salute/malattia sia legato più alla disuguaglianza
dei bisogni e ad altre variabili che all'accessibilità dei servizi sanitari tradizionali. Da
qui l'importante spostamento dell'ottica dell'OMS su un modello di salute ecologico/ambientale e
sociale che operi essenzialmente su ciò che produce malattia. Ma la crisi del sistema nazionale
italiano già fortemente orientato sul momento preventivo, sta dimostrando che il modello operativo
classico (il modello medico-clinico) e il corpo professionale sono risultati incapaci di rispondere alle
esigenze nuove poste da una medicina di massa teoricamente incentrata proprio sulle condizioni ambientali,
ecologiche, di lavoro, di vita di cui parla ora l'OMS. Perchè questo spostamento d'azioni, di
interesse e di controllo in settori estranei all'ambito medico, richiedeva una modifica sostanziale
delle modalità di intervento, delle priorità, delle scelte, in assenza della quale nulla
viene mutato: come di fatto è puntualmente accaduto.
In società democratiche ma "disuguali", non potendo agire direttamente sul piano della disuguaglianza
sociale, si è costretti a puntare, come tappa di un processo evolutivo, sulla acquisizione di
diritti settoriali, capaci di riproporre - da un livello contrattuale più alto - il problema
della disuguaglianza. I diritti settoriali acquisiti si trovano, però, a dover essere garantiti
dalla stessa cultura che, nata e sviluppatasi in coerenza con i valori espressi dalla società
disuguale, ha contribuito a mantenere e ad occultare la disuguaglianza. L'acquisizione del diritto
alla tutela della salute per tutti, che è conquista sociale e politica sancita da un SSN, per
poter essere concretamente rispettata, deve dunque agire, nel settore specifico in cui il diritto è
stato acquisito, anche sui processi culturali, sui modelli operativi, sulle pratiche istituzionali,
cioè sulle discipline e sui corpi professionali deputati a rispondervi, i quali essendosi occupati
finora solo della malattia, hanno sempre messo fra parentesi il problema della disuguaglianza che riguardava
il malato.
La necessità di una revisione radicale delle discipline in rapporto alla consapevolezza delle nuove
variabili da prendere in considerazione, diventa allora uno degli elementi essenziali alla promozione di
una nuova cultura della salute, sia all'interno che all'esterno del sistema curativo. Ma la costruzione
non professionale della salute, di cui parla l'OMS, pur penetrando nel cuore del problema essendovi
implicita la critica nei confronti di una tecnica che troppo spesso mistifica problemi sociali dando ad essi
un'interpretazione "naturale" di malattia, rischia di rivelarsi un'astrazione, se si pone solo esternamente
o parallelamente al campo medico, cioè se non si prefigge anche di incidere sul perdurare della
costruzione rigidamente tecnico-professionale della terapia.
Tutto questo è confermato da quanto è accaduto da noi nel settore dell'assistenza psichiatrica.
La riforma psichiatrica, tuttora molto discussa e scarsamente realizzata, è nata infatti da un
movimento di tecnici che aveva messo in discussione la propria disciplina e la propria professionalità
in rapporto alla realtà che essi stessi producevano: la realtà manicomiale.
Il Servizio sanitario nazionale, che avrebbe dovuto garantire il diritto alla tutela della salute per
tutti anche attraverso misure preventive rispetto a ciò che produce malattia, è stato invece
affidato ad un modello scientifico e a un corpo professionale che hanno visto il loro maggiore sviluppo
nell'interesse precipuo per la malattia più che per il malato; modello che si è strutturato
di pari passo e con notevoli complicità con l'organizzarsi di un corpo sociale fondato sulla
disuguaglianza; che si è sviluppato all'interno della logica del profitto, sia per quanto riguarda la
medicina mercantile, sia per quanto riguarda lo sviluppo della tecnologia medica; che, di conseguenza,
procede verso la dilatazione del mercato della malattia per dilatare il mercato della cura. Si tratta,
dunque, di un modello operativo che ha potuto mettere fra parentesi il problema della disuguaglianza
dei bisogni (che riguarda il malato e non la malattia), per occuparsi di "diversità" separate,
più o meno naturali o considerate tali (malattia, devianza, vecchiaia, handicap, menomazione), dove
il diritto soggettivo è sempre rappresentato solo dal medico, unico soggetto dell'esperienza malata.
È dunque, alle risposte tecniche implicite in questo modello che accedono i diritti acquisiti in
questo settore, mentre per poter essere rispettati dovrebbero essi stessi riuscire a modificare il modello
operativo che deve garantirli. Il che è come dire che i "diritti del malato", le "carte dei diritti"
possono essere garantiti solo da un cambio radicale dei corpi professionali e dei fondamenti culturali
delle diverse discipline che agiscono essenzialmente sulle "diversità naturali", costringendoli a misurarsi
concretamente con la pratica quotidiana della disuguaglianza dei bisogni che la stessa acquisizione dei
diritti esprime più esplicitamente nel cuore stesso delle discipline. La distanza fra teoria e pratica
consiste dunque essenzialmente nel fatto che solo la pratica si scontra con questa disuguaglianza, mentre
la teoria la tratta come una diversità naturale su cui possono agire i diversi interventi tecnici e
specialistici.
Il significato di ciò che è accaduto in Italia nel settore della psichiatria e che ne ha
modificato le fondamenta - anche se il livello di applicazione della legge 180 allo stato attuale può
solo parzialmente dimostrarlo - è stato esattamente questo: agendo contemporaneamente sul fenomeno
specifico (malattia, sofferenza, devianza ecc.), sulla propria disciplina una volta rapportata ai bisogni
del malato, sulla disuguaglianza (intendendo con questo tutto ciò di cui è fatta la problematica
del vivere quotidiano della gente: disoccupazione, sottoccupazione, diversità di sesso, di
opportunità, mancanza di casa, convivenze familiari impossibili, assenza di spazi soggettivi per
esprimere la propria sofferenza, assenza di prospettive e di significato), accettando come parte integrante
della terapia, il conflitto che ogni soggetto produce in quanto portatore di un'esperienza e di una conoscenza
con cui lo schematismo delle diverse discipline deve fare i conti, la sfera reale dello specifico psichiatrico,
quindi dello specifico sanitario, viene via via riducendosi in rapporto alla riduzione delle risposte di
carattere esclusivamente tecnico e all'ampliarsi delle risposte alle altre variabili presenti nel fenomeno
che si deve affrontare. In ciò consiste la "prevenzione" più efficace nei confronti della
cronicizzazione del disturbo o dell'assunzione impropria di malattia. Procedendo, invece, secondo il modello
operativo classico, non si fa che fissare e cronicizzare in "bisogno sanitario" - che diventa pere esso stesso
l'oggetto dei nuovi diritti acquisiti - anche tutto ciò che appartiene ad altre sfere di bisogni,
perchè le misure tecniche tradizionali sono la risposta ad uno stereotipo costruito su un bisogno unico,
isolato e separato dal mondo di bisogni in cui prende corpo: il diritto alla tutela della salute si traduce
allora nel diritto ad una cura che, considerando malattia anche ciò che esprime bisogni diversi,
traduce questi bisogni diversi in malattia.
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