Rassegna stampa su Giovanni Rissone
da La Stampa del 28-04-2000
Fuga dall'Albania: diario di un profugo della speranza. Sul gommone inseguendo la vita. L'odissea di Zamir, clandestino per forza
Sul gommone c'erano più di trenta persone, un mare di desideri, un unico sogno: cambiare vita. Ma
per lui era diverso. Zamir non s'era imbarcato a Valona inseguendo la speranza di un'esistenza migliore.
Lui era partito solo per vivere. Una fuga della salvezza costata un milione e durata una notte e un giorno,
prima nelle acque dello Ionio fino a Brindisi, poi in treno fino a Torino. "Visto che così che sono
morto, voglio provare a vivere" aveva detto al fratello per giustificare il suo gesto. Aspettare il visto per
entrare legalmente in Italia? Troppo lungo, sarebbe stato come firmare la propria condanna a morte, il
cancro sotto l'orecchio lo stava divorando. E Zamir Cunay, 24 anni, venditore di latte a domicilio, non
aveva tempo da perdere. Per tre volte lo avevano operato in Grecia - ad Atene, dove da quasi dieci anni
viveva con gli zii -, ma il suo volto era diventato una maschera deforme e il rischio di morire si faceva
sempre più vicino.
L'unica - l'ultima - speranza era venire a Torino dalla cugina. Per la legge Zamir è un clandestino
come mille altri, per i medici del Giovanni Bosco un paziente come mille altri. Adesso lui, nel suo letto al
settimo piano, li guarda e sorride. Non è ancora in grado di parlare, la sua voce è quella del
fratello Ilir, 30 anni, ingegnere in Albania, in Italia da gennaio, due settimane dopo l'arrivo di Zamir.
Anche lui clandestino, anche lui partito da Valona su un gommone. "Lo avevo già fatto cinque anni fa
- racconta - per lavorare un anno a Bologna come imbianchino. Ma mi dispiaceva non usare la mia laurea e sono
rientrato Albania. Sono tornato in Italia solo per mio fratello, questa operazione gli ha salvato la vita".
Parla un italiano corretto Ilir Cunay, e mentre racconta stringe la mano di Zamir. Sono entrambi emozionati,
i loro occhi non nascondono la commozione quando Ilir racconta della telefonata dei genitori, arrivata da
Valona. "In Albania si vede bene la televisione italiana, così abbiamo avvertito i nostri genitori
delle interviste rilasciate alla Tv. E loro poi ci hanno telefonato, sono contenti che Zamir sia riuscito a
salvarsi. E non si sono nemmeno tanto impressionati per tutte queste bende e le ferite, li avevo già
informati su quello che era accaduto in sala operatoria". La televisione come anello di congiunzione tra
Zamir e l'Albania, un'agenda con copertina fiorata al posto delle parole che non può ancora
pronunciare. "Gliel'ho regalata io il giorno dopo l'intervento - prosegue Ilir perché sapevo che non
avrebbe potuto parlare. La prima cosa che mi ha scritto? ha valuto sapere quanto era rimasto in sala
operatoria. Poi mi ha domandato com'era il suo volto, mi ha chiesto uno specchio, ma io non gliel'ho dato.
Non me la sono sentita. È un miracolo se è ancora vivo, senza l'aiuto di questo ospedale non
ce l'avrebbe mai fatta, e non è certo questo il momento di pensare all'aspetto estetico. Forse lui
adesso pensa alla sua fidanzata, Julia, ma con un intervento di chirurgia plastica in futuro potrà
migliorare il suo volto. E poi, la cicatrice che avrà sul collo è nulla a confronto a quelle
che gli erano rimaste dopo gli interventi in Grecia". E in effetti a guardare quelle foto scattate a Zamir
prima del ricovero al Giovanni Bosco è facile rimanere impressionati: l'orecchio sinistro è
spostato fin quasi dietro la testa e la guancia è dilatata all'inverosimile. "Ad Atene i medici
hanno sempre sottovalutato il problema: l'hanno operato per la prima volta nel '94, gli hanno inciso dietro
l'orecchio un taglio molto piccolo, quasi non si vedeva, ma evidentemente non hanno asportato tutto il
tumore, che infatti gli è ricresciuto. L'hanno operato di nuovo due anni dopo e poi, ancora, nel
luglio scorso. Ma non è servito a nulla". Anzi, da quel momento la vita di Zamir si è
trasformata in un calvario: ha progressivamente perso la possibilità di sentire dall'orecchio
sinistro e quella di mangiare. "Mangiare non mangia ancora, ma quando qualche giorno fa s'è accorto
di essere tornato a sentire s'è messo a piangere dalla gioia". E mentre ricorda, piange quasi anche
questo giovane ingegnere."Siamo clandestini, vero, ma nessuno può immaginare ciò che abbiamo
passato prima di arrivare a Torino. Viaggiare sul gommone è una terribile sfida al destino, che per
alcuni finisce addirittura con la morte. Io e mio fratello Zamir siamo stati costretti a partire, non
avevamo scelta. morire in Albania o vivere entrando in un paese senza il permesso di soggiorno". Da
clandestini forzati.
Longo Grazia
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